In attesa degli amici, apparecchio la tavola, preferisco trovino tutto pronto senza stare a perdere preziosi momenti insieme trasportando piatti e posate. Bene, tutto a posto, non manca nulla.
Salvo loro, che telefonano: sono in ritardo. Che fare? Come occupare quella mezz’ora? E se rinunciassi a metterla a frutto? Resto seduta li dove sono. Mi fermo a guardare le quinte del giardino al tramonto, la luce che trascolora tra le insenature delle montagne. È già più tersa, in queste giornate di fine estate. Mi godo un momento meraviglioso. Quanta ricchezza nel mantenersi inattivi, attenti a quanto accade intorno. A starsene fermi si svela una vita furtiva. I fiori appena smossi dal vento, un frusciare di foglie degli alberi. È bello sentirsi parte del mondo e guardare, semplicemente guardare intravedendo il carminio delle dalie spento nel verde crepuscolare, la pennellata violacea di un racemo di glicine comparso fuori stagione. Una brezza leggera ispira una danza al seme piumoso di un tarassaco cresciuto indisturbato tra le foglie dell’iris e l’edera. Mi accorgo di trovarmi alla frontiera tra il rumore dell’inorganico -il lontano rombo ansimante della strada attutito dalle siepi – e un ultimo frinire dei grilli. Due mondi sonori, ma anche die tempi – uno dal sapore arcaico, l’altro sguaiatamente nuovo – distinti e misteriosi nel loro fronteggiarsi.
Mi ha regalato un supplemento di felicità questa sosta forzata. Avrei potuto prendermela con il contrattempo: vi ho riconosciuto invece un’occasione. Siamo noi a scegliere, volta per volta, cosa fare di quanto è dato Rallegrarsene oppure prendersela dipende dall’abilità di mantenersi in equilibrio sul sottile crinale che separa le scelte dalle imposizioni. Là dove può anche aprirsi uno spiraglio di libera contemplazione nell’ora forse più bella del giorno, sospesa tra il buio e la luce.